giovedì 24 novembre 2016

Un sì ragionato, con voglia di unire, nonostante Renzi



Prima di tutto: andiamo a votare! Il 4 dicembre andiamo a votare. Per me è un diritto ed un dovere. Come per altre consultazioni, anche non di questo tipo, credo sia necessario e doveroso ricordare di andare a votare, spronare a prendere parte, a partecipare, a non lasciare che altri decidano per noi. Non sprechiamo questa opportunità. Inutile lamentarsi delle scarse occasioni di partecipazioni alla vita politica se poi quelle che ci sono non sono utilizzate al meglio.

Piccola ma doverosa premessa. Il mio sì non è un sì politicizzato, ideologico e/o di appartenenza. E’ un sì ragionato. Tanto più dopo aver letto anche le ragioni del fronte del No, che rispetto ma non condivido. Ed avendo letto ed ascoltato di tutto, sulla carta stampata e in tv, fino ad un limite che però mi sono autoimposto: quello della faziosità e della disonestà intellettuale che non sopporto mai in politica. Appartengono alla prima, ad esempio, i Rondolino (Unità) ed i Travaglio (Il Fatto) e vari politici espressioni del sì e del no; appartengono alla seconda i Salvini e i Berlusconi, quelli che nel 2006 volevano introdurre il premierato, il potere di scioglimento delle camere al Premier, l’alterazione dei poteri costituzionali con un Presidente della Repubblica depotenziato. Non scherziamo!
Il dibattito politico sulla riforma ha superato davvero in questi ultimi giorni i toni ed il garbo di un confronto sereno e civile. La politica è uno strumento importantissimo ma è anche un’arena, si sa. E tuttavia credo che si possa votare sì o no senza insultare chi la pensa diversamente, senza toni polemici o irridenti delle ragioni altrui, senza le miserie del linguaggio politico attuale, formidabilmente sintetizzate nei tristissimi “ciaone” o “pidioti”.
Ma in quest’ultimi giorni si è sentito pure di peggio. Da una parte e dall’altra. E francamente, tutto ciò mi fa schifo, perché l’uso di un certo tipo di linguaggio, in politica più che altrove, è sempre il primo drammatico sintomo del degrado della politica stessa. Servirebbe più accortezza.
La cosa che mi più di tutte mi fa pena quando sento le parole dei vari De Luca, dei vari Ingroia o dei vari Grillo o dei vari analisti finanziari che invocano chissà quali drammi del post voto, solo per citare gli ultimi edificanti esempi, non è solo il tipo di parole usate ma è l’artificiosa creazione della paura, l’intimidazione delle persone creando ad arte scenari apocalittici. Penso che compito della politica con la “P” maiuscola sia invece sempre quello di informare e di costruire opinioni consapevoli, non creare paure, evocare catastrofi e distruggere.
Così facendo si fa solo un servizio al crescente distacco tra cittadini e politica.
Per tutto questo, di seguito, ci sono soltanto alcune considerazioni di chi questa riforma se l’è letta e studiata non da ora, approfondita fin dove ha potuto, per farsene una ragione libera ed autonoma. Come dovrebbe essere in questi casi. Perché l’appartenenza ad un partito per me non sarà mai un limite alla libera scelta e alla maturazione dell’autonomia delle proprie idee.

La riforma perfetta è quella che non si farà mai, dunque giudichiamola per quella che è. Stiamo al merito, senza secondi fini, facendo lo sforzo di astrarci da Renzi e dalla contingenza politica. Una riforma costituzionale traguarda ad alcuni decenni, non a domani mattina. Dopo un Governo, bello o brutto, ne verrà senz’altro un altro. Soprattutto se vincerà il no. Probabilmente sarà ancora uno tecnico o di larghe intese, una ennesima iattura, ma cerchiamo di fare lo sforzo di non distrarci. Così come la legge elettorale si cambia dalla sera alla mattina con legge ordinaria (il centrodestra col Porcellum lo ha disastrosamente dimostrato, oggi pare che ce ne siamo già scordati) e, soprattutto, non rientra nel quesito referendario. Anzi per dirla tutta come la penso, ritengo che la riforma del bicameralismo paritario, seppure con qualche limite, vada bene a prescindere da quella che sarà la futura legge elettorale. Peraltro mi pare evidente che gli effetti del mitico “combinato disposto” siano stati disinnescati alla radice. Ormai l’ha capito anche il gatto che l’Italicum sarà cambiato: superamento del ballottaggio (personalmente ero per mantenerlo, inserendo però l’obbligo di apparentamento tra primo e secondo turno), ritorno ai collegi, superamento capolista bloccati e candidature plurime (la cosa che più di tutte non mi è mai piaciuta dell’Italicum, pur riconoscendogli invece nel complesso vari pregi), premio di governabilità (che non vuol dire più di maggioranza) alla coalizione o al partito. In sostanza tutto ciò che la minoranza PD aveva chiesto e che molti fieri oppositori, da destra e da sinistra, auspicavano.
So bene che la politica non è un mondo irenico, di pace e gioia. Ma è triste vedere come si giochino molte partite sulla data del 4 dicembre, tranne forse quella che veramente conta: spiegare cosa c’è realmente dentro la riforma e perché, almeno secondo il mio punto di vista, il Paese farebbe un piccolo ma significativo passo avanti se la riforma passasse. E non sto parlando di accontentarsi, sto parlando di cose molto concrete, di andare in una direzione politica auspicata più volte anche da sinistra.

Un sì ragionato. Perché, intanto, non ravviso nella riforma nessun rischio di deriva autoritaria a differenza, ad esempio di quella del 2006 – anche qui le parole hanno un peso -, così come va detto  che non arriveranno le cavallette ed i famosi mercati comunque andranno avanti, come hanno sempre fatto. Certo, avremo perso tutti un’occasione di fare alcune delle cose che la giurisprudenza costituzionale, ed in larga parte anche il sistema politico quasi nel suo insieme ci dicono di fare o di voler fare. Centrosinistra incluso, dai DS all’Ulivo almeno. Per questo dico sì. Non per un mero calcolo tra aspetti positivi e negativi, ma perché vi ravviso una direzione, una scelta politica che condivido.

Le riforme costituzionali non si fanno a maggioranza. Inoltre sono consapevole che lo strumento referendario, di per sé, è naturalmente divisivo: o tutto o niente. Con tutti i limiti che questo metodo comporta. Ma altrettanto nettamente bisognerebbe avere la decenza di dire che, tanto per stare al tema, è proprio quello che prevede la nostra Costituzione all’art 138, quando il Parlamento non riesca ad approvare la revisione costituzionale con i due terzi dei suoi componenti nella seconda votazione. Come è avvenuto per la riforma in questione. Fermatasi attorno al 57% dei voti (180 senatori su 315, 361 deputati su 630). Chi grida al “golpe” sbaglia di grosso: che piaccia o no la riforma è stata fatta proprio come la stessa Carta prescrive.
Si dice: ma non si fanno le riforme a colpi di maggioranza. Verissimo. Nel 2001 il centrosinistra fece un errore e ce lo siamo detti più volte. Più grosso lo fece il centrodestra nel 2006. Può essere considerata questa una riforma a colpi di maggioranza? Ci sarebbe da discutere. Ci dimentichiamo del gruppo di lavoro messo in piedi da naplitano subito dopo la sua rielezione e la sua Relazione finale sulle riforme istituzionali, composto da Mauro, Onida,Violante e Quagliarello. Poi ci dimentichiamo del lavoro collegiale dei 42 costituzionalisti messo in piedi con funzione consultiva dal Governo Letta, composta dai principali costituzionalisti italiani.
Se si eccettua la autoesclusione del M5S, come noto assai restio al compromesso che invece è uno dei compiti principali di un organo legislativo, la riforma è stata elaborata e poi anche votata in prima battuta da tutto il centrodestra. E’ stata la tattica politica e solo quella a far cambiare idea a parte del centrodestra, mentre altri hanno continuato a sostenerla. A me, questa volta, pare un falso problema se confrontato con gli altri precedenti.

Perché sì. Più che dei berci, della parolacce e degli insulti la riforma andrebbe ben ponderata. Weber diceva che in politica vige l’etica della responsabilità, che di norma è bene prevalga su quella dei principi. Probabilmente la riforma si poteva fare ancora meglio, è del tutto naturale che in una riforma non vada sempre tutto bene. Ma penso che tanto più se si parla di Costituzione la riforma perfetta è quella che non si farà mai, inutile illudersi se si ha un po’ di senso delle cose e di come funziona un Parlamento.

Almeno per me le questioni che spingono in favore della riforma sono: 1) non altera l’equilibrio dei poteri dello Stato; 2) non tocca il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica; 3) non cambia la forma della nostra democrazia, che resta saldamente parlamentare; 4) non introduce nessun “Premierato” o “semi presidenzialismo”; 5) non dà alcun potere in più al Presidente del Consiglio che resta primus inter pares (tutti motivi per cui, fieramente, mi opposi invece alla riforma del 2006 che oltre a questo, prevedeva pure il potere di scioglimento della Camere da parte del Premier, così per dire).
Invece questa riforma supera: A) il bicameralismo paritario, criticato dagli stessi padri costituenti fin da subito; B) modernizza l’organizzazione dello Stato; C) dà un giusto rafforzamento al Governo (non al Premier!) con i tempi certi alla sua azione, con la fine dell’abuso della decretazione d’urgenza (uno scandalo della così detta costituzione materiale) e D) con contrappesi e garanzie (lo Statuto delle Opposizioni assurge a rango costituzionale); E) riorganizza le competenze tra Stato e Regioni all’origine dello spaventoso contenzioso sorto davanti alla Suprema Corte dal 2001 in poi. Me lo dicevano all’Università che sarebbe andata così e avevano ragione. Leggete il libro di Sabino Cassese “Dentro la Corte” per farvi un’idea.

Una riforma nella giusta direzione. Dunque un sì da cui l’Italia, per tutte queste ragioni, penso possa trarre benefici. Una riforma che, nel suo complesso, rende il Paese più chiaro nella sua articolazione istituzionale e forte nella sua organizzazione statale, ma non per questo meno democratico. A me il punto centrale pare proprio questo, al netto delle singole obiezioni che ognuno di noi può avere. Lo dico stando al merito della riforma e solo a quello, senza scendere nel tifo o nella demonizzazione delle idee altrui. Stiamo infatti parlando delle regole della nostra comune convivenza, che vanno un po’ più in là dei destini personali di ciascuno di noi, o di Renzi, Grillo e Salvini.

Un sì nonostante l'errore di Renzi. Sostengo il sì per alcuni buoni motivi e non in favore di o contro qualcuno. E’ miope pensare di utilizzare una così importante occasione, quella della riscrittura delle regole che tengono insieme il nostro ordinamento e la nostra vita democratica, per mandare a casa il Renzi di turno. E invece questo sembra essere l’obiettivo di tanti.
A Renzi riconosco il merito di aver praticato il ‘primato della politica’, di aver indicato una strada di riforma dopo molti cincischiamenti – basandosi sul lavoro istruttorio fatto dal gruppo dei costituzionalisti già messo in piedi da Letta dopo la rielezione di Napolitano – e di averla portata in fondo. Il Parlamento ha rivisto peraltro profondamente il testo originario, molte sono state le modifiche.
Ma proprio perché ritengo che una riforma costituzionale come quella in atto sia un tantino più importante dei singoli destini di ciascuno di noi e che travalichi la contingenza politica, guardando necessariamente al futuro di una comunità nazionale, penso altrettanto convintamente che alla campagna elettorale così spiacevole abbia contribuito non poco lo stesso Renzi.  Che ha commesso fin dall’inizio l’errore clamoroso della personalizzazione del referendum, legando la sua sorte a questa consultazione. Questo ha scatenato una propaganda anti Governo e anti Presidente del Consiglio di notevoli proporzioni, coagulando contro la riforma tutto ed il contrario di tutto, anche chi della Costituzione ne farebbe davvero strame e chi col tricolore ci si puliva letteralmente parti del corpo poco nobili. Personalizzare è stato un errore politico che rende tuttora complicato un serio, pacato ed efficace confronto nel merito. Che però è irrinunciabile, nonostante tutto. Tuttavia la personalizzazione, le poche volte che è messa da parte, va detto altrettanto onestamente, scioglie il collante di forze assai eterogenee sul fronte del no, smascherando quelle a cui, davvero e nel merito, della riforma non importa un fico secco se non gli effetti su Renzi per mandarlo a casa e poi si vedrà.

Un sì per unire perché dopo il 4 dicembre c’è anche il 5. E penso anche che si debbano spiegare le ragioni della riforma senza il bisogno di scomodare personaggi politici importanti ma assenti dal dibattito presente, soprattutto a sinistra, così come ritengo invece più consono utilizzare le ragioni e le considerazioni dell’oggi alla luce delle proposte di modica degli ultimi 20 anni avanzate sia dal mondo politico che dal dibattito costituzionale, oltre che dalla giurisprudenza costituzionale. Mi è dispiaciuto vedere all’inizio della campagna strattonate da una parte e dall’altra associazioni o istituzioni, a molte delle quali peraltro appartengo, che fondano la propria storia nelle radici del movimento progressista della sinistra italiana.
Siamo di fronte ad un passaggio fondamentale della vita democratica dell’Italia che deve essere affrontato con maturità e piena consapevolezza della complessità della materia.
Vengo da partiti politici che, almeno dal 1993 in poi e almeno nella loro parte più progressista, hanno fatto della democrazia “decidente” e dell’alternanza, con la possibilità di scelta dei governi da parte dei cittadini e non da parte del consociativismo parlamentare, punti fermi delle loro proposte politiche. Oggi, invece, vedo molte amnesie. E lo dico con il rispetto necessario. Un rispetto che spesso manca tuttavia, perché si può anche dissentire, ma senza insultarci. Soprattutto a sinistra.

Si affrontano problemi irrisolti da tempo. Questo è un punto di forza della riforma. Sono convinto che gli italiani, messi di fronte alle soluzioni che tentano di risolvere problemi irrisolti da anni, che rendono il nostro sistema istituzionale più chiaro e funzionante, per questo io dico più moderno anche paragonandolo alle altre esperienze europee, ne comprenderanno le ragioni e le prospettive.
Nel 1994 i Progressisti che persero conto Berlusconi preponevano il superamento del bicameralismo paritario con la Camera con funzione proprie di una assemblea nazionale ed un Camera delle Regioni. Nel 1996 l’Ulivo proponeva che il Senato fosse trasformato in una Camere delle Regioni composta da esponenti delle istituzioni regionali che conservassero le cariche locali e che potessero esprimere il punto di vista e le esigenze della regione di provenienza.
Certo non mi sfugge anche che in precedenza, a sinistra, si sia propugnato addirittura il monocameralismo. Ma se siamo seri e abbiamo seguito l’iter della riforma dobbiamo constatare che in Parlamento una maggioranza per questo non c’era. Inoltre va anche detto,  come riportano gli esempi citati in precedenza e come fu addirittura nel dibattito della Costituente, che uno stato regionalista ha necessità di vedere rappresentate le istituzioni territoriali al centro dell’ordinamento, in una camera dedicata.

No all’abolizione del Senato, certo lo avrei preferito alla tedesca. Tutto ciò ricordato devo dire che la parte sul nuovo Senato è quella che mi crea i maggiori dubbi sulla riforma. Quale riforma non ne porta? Personalmente, avrei preferito un Senato modello tedesco dove si esprimesse la volontà dei governi regionali, con voto univoco e vincolo di mandato. A questo avrei aggiunto però una riforma del numero delle Regioni, attraverso una loro aggregazione, abolendo le regioni a statuto speciale. Soprattutto, se si pensa anche al giusto riordino delle funzioni legislative tra Stato e Regioni che la riforma comporta, avrei rilanciato sul rafforzamento delle autonomie locali, stringendo un patto con loro, perché oggi gli enti locali sono allo stremo, così come avrei finalmente regolato la vita democratica di partiti e sindacati. Il discorso ci porterebbe lontano ma il punto politico è per me rafforzare tutto ciò che è nel mezzo tra Comuni e Stato, così da favorire la partecipazione. Del resto però, anche qui, se si vuol essere seri, va riconosciuto che in parlamento una maggioranza per questa soluzione non c’era. Siccome nel Senato alla tedesca non siederebbero i consiglieri ed i sindaci ma i governi regionali, considerando che il PD governa larga parte delle regioni (oggi 17 su 21), apriti cielo spalancati terra. Altro che di deriva autoritaria si sarebbe parlato… Per questo è venuto fuori il Senato che è nel testo nella riforma.

Chiariamoci però su come verrà eletto. Quanto alla presunta non elezione dei futuri Senatori si raccontano storie, purtroppo, del tutto false. E’ stato chiarito ormai più volte che (art. 57) i Consigli Regionali sceglieranno “fra i propri componenti” i Senatori con metodo proporzionale ma “in conformità alle scelte degli elettori”, sulla base di modalità stabilite dalla legge ordinaria. Quest’ultima sarà approvata dopo il referendum e non potrebbe essere diversamente e il Pd, come ha deciso la Direzione su proposta di Renzi, sosterrà in Parlamento il Disegno di legge (Ddl) che i senatori Fornaro e Vannino Chiti e altri hanno predisposto. Secondo questa legge i 74 consiglieri regionali-senatori saranno eletti dai cittadini in modo proporzionale con una scheda elettorale apposita, diversa da quella con cui eleggeremo i consiglieri semplici e il presidente della Regione; la selezione dei candidati avverrà in collegi uninominali. I Consigli regionali si limiteranno ad una presa d’atto. Punto. Chi afferma il contrario o omette di dire questo, come fa Travaglio quasi tutte le sere su La7, mente sapendo di mentire. Vannino Chiti, per fare un esempio su tutti, ex Presidente della Regione Toscana era tra quei senatori che avevano annunciato il suo No se non si fosse fatta chiarezza, prima del voto, sul punto della diretta indicazione dei consiglieri da eleggere nel nuovo Senato direttamente da parte dei cittadini. Non è che Chiti era un mito prima quando diceva di votare no ed un bischero ora che, chiarito questo punto, ha detto di votare sì.

Non c’è tutto ma c’è molto di quel che serve. In conclusione a me pare proprio, pur a fronte anche delle osservazioni mosse in precedenza, che nella riforma, come hanno scritto oltre 200 costituzionalisti che si sono firmati a favore della modifica, “non c'è forse tutto, ma c'è molto di quel che serve, e non da oggi, per affrontare efficacemente alcune fra le maggiori emergenze istituzionali del nostro Paese. Ed è proprio a questo che dobbiamo guardare: al complesso del disegno e rispondere alla domanda se, tutta insieme, questa riforma rappresenti comunque un passo avanti nella direzione di una migliore organizzazione dell’ordinamento dello Stato oppure no. Per me sì, lo rappresenta.
Ad esempio: non si può non riconoscere come in tutti e cinque i progetti organici di riforma costituzionale presentati prima di quello attuale (Bicamerale Bozzi 1983-85; Bicamerale Iotti-De Mita 1992-94; Bicamerale D'Alema 1997-98; Riforma costituzionale Berlusconi 2005; Bozza Violante 2007) fosse indicato come necessario il superamento del bicameralismo perfetto e la differenziazione di compiti tra le due camere, con l’obiettivo sostanziale di togliere  al Senato il potere di decidere sulla vita del Governo e di rappresentare invece le istituzioni locali.

4 ragioni di fondo a sostegno di questa riforma, prevalenti sulle singole obiezioni.
La prima: il superamento del bicameralismo perfetto, l’unicum tutto italiano figlio, allora, delle paure del passato fascista ma anche dei timori sul futuro indotti dall’inizio della guerra fredda. Ebbene la riforma ha il merito di modernizzare l’architettura istituzionale dell’Italia e di snellire il Parlamento con la riforma del Senato (semplificato e specializzato nelle funzioni quanto ridotto nella sua composizione). La sola Camera sarà la camera politica, che darà la fiducia al Governo. Il Senato avrà un ruolo diverso e ridotto, ma più specializzato rispetto al passato: le istituzioni locali avranno finalmente una rappresentanza al centro dello Stato, così come auspicato fin dal dibattito nella Costituente. Sì, avremo anche la riduzione dei parlamentari, sempre promessa e mai fatta, e qualche indennità in meno. Ma quello dei costi e dei risparmi non è per me un motivo dirimente per cui sono a favore della riforma. Da sinistra dobbiamo ribadire con forza, contro ogni demagogia pauperistica soprattutto dei 5S, che la democrazia ha un costo, da Pericle fino ai giorni nostri. Quello che da sinistra va combattuto è l’abuso, il ladrocinio ed il privilegio. Non i principi alla base della democrazia e della separazione dei poteri. Tra i quali, che piaccia o meno, rientra pure l’immunità parlamentare per l’esercizio delle proprie funzioni che oggi si sostanzia di fatto nella richiesta per i casi di arresto, non certo di avvio a procedere. Con questa smania dei politici ‘tutti da mandare a casa’ si rischia da più parti di fare fuori non solo elementi portanti delle democrazia, ma conquiste della sinistra costate sacrifici perché la politica potesse essere praticata da tutti, senza limitazioni di censo e di censura, anche della propria libertà individuale. Certi dibattiti su questi aspetti fanno veramente pena.

La seconda: la razionalizzazione del processo legislativo, con la chiarezza dei compiti delle Regioni ed il rafforzamento dell’azione del Governo. La fine del bicameralismo perfetto, infatti, ha riflessi positivi anche sul procedimento legislativo. La Camera avrà così la preminenza sul Senato nella produzione delle leggi, come auspicato da tempo. Si supera finalmente la legislazione concorrente e si ridefiniscono i rapporti tra Stato e Regioni con incremento delle materia di competenza statale, come peraltro indicato dalla giurisprudenza costituzionale dalla riforma del 2001 in poi. Si rafforza l’azione del Governo con il voto “a data certa” sui disegni di legge per l’attuazione del programma, ma senza introdurre alcun “premierato”. La forma di governo non cambia e resta quella parlamentare: il Presidente del Consiglio non avrà potere di nomina e di revoca dei ministri, oltre a dover richiedere la fiducia alla Camera. E se da un lato l’azione del Governo viene rafforzata, dall’altro viene riequilibrata con le limitazioni all’uso sconsiderato e vergognoso dei decreti legge. Nessun “eccesso di potere” o “rischio di derive autoritarie” dunque. Anzi il nuovo art. 64 prevede che  “I regolamenti delle Camere garantiscono i diritti delle minoranze parlamentari”, inoltre ‘il regolamento della Camera dei deputati disciplina lo Statuto delle Opposizioni’. Perciò assume rango costituzionale la previsione che le forze di opposizione dovranno essere correttamente rappresentate all’interno del Parlamento. Quelle di ora e quelle di domani, si badi bene.

La terza, infine, sta nel fatto che non si modificano i ruoli di garanzia previsti dalla Carta ed i contrappesi all’azione di governo. Intanto: il Presidente della Repubblica* avrà un quorum più alto dell’attuale per essere eletto e resta il garante della Costituzione. Non si toccano la Magistratura, il Csm e la Corte Costituzionale (mentre, devo dirlo, trovo improprio per il ruolo di giudice delle leggi che la Corte riveste che essa debba valutare la costituzionalità delle leggi elettorali in via preventiva e non dopo).


La quarta. La democrazia diretta registra, secondo me, significativi passi in avanti, per favorire la partecipazione dei cittadini alla funzione legislativa, alla vita politica e sociale del Paese. Un aspetto, questo, che mi pare sia troppo sottovalutato o raccontato in modo falso dai detrattori della riforma che animo i talk show televisivi. A me paiono invece punti importanti.
L’innalzamento delle firme (150mila a fronte delle 50mila oggi previste) necessarie alla presentazione di una proposta di legge popolare, hanno come garanzia l’inedito di tempi certi per l’esame parlamentare, cosa mai avvenuta fino ad oggi. Così come il referendum abrogativo che, in caso di 800mila firme raccolte, avrà il quorum per la validità fissato al 50%+1 dei votanti alle ultime elezioni politiche e non più degli aventi diritto. Attenzione, una forma non esclude l’altra: 500 mila firme (come oggi) con un quorum del 51% degli elettori, oppure 800 mila firme con un quorum del 51% dei votanti alle ultime elezioni politiche.
Si introduce anche, per la prima volta in Costituzione, l’istituto del referendum propositivo e di indirizzo, da disciplinarsi con apposita legge costituzionale. Non mi sembrano istituti di poco conto in uno dei momenti più bassi del rapporto cittadini-politica-istituzioni.

Potremmo continuare. Così come non ci sfuggono difetti, incongruenze e qualche dubbio applicativo di cui ho provato a dare conto. Ma quale riforma non ne porta con sé? Ad esempio: funzionerà il nuovo Senato che porta le istituzioni al centro dell’ordinamento, che passa da una legislazione paritaria ad una per tipi distinti, differenziata in parte anche per materia? Dipenderà dal buon senso e dai protagonisti politici. Ma la semplificazione, nel rispetto della democrazia parlamentare che non muta, mi pare evidente.

Attuare la Costituzione resta comunque la battaglia da fare. La gara su chi sia più legittimato o titolato a riformare la nostra Costituzione, a mio avviso, non solo non è utile, ma neppure ci piace e ci appartiene. E la riforma migliore in assoluto è sempre quella prossima. Perché, dunque, rinunciare a molte delle cose di cui si ravvede la necessità da tempo per l’aggiornamento delle nostre istituzioni? Questo è quel che mi interessa e che richiede alla politica ed ai suoi interpreti di fare il suo mestiere: quello di approfondire, di provare a spiegare, di organizzare strumenti per maturare opinioni e fare scelte consapevoli. Dovendo alla fine prendere parte.
Nel mio piccolo, dunque, sono stato attivo insieme a tanti altri all’interno del Comitato per il sì, con buon senso e misura. Certamente convinto delle ragioni illustrate e dell’occasione che ha il nostro Paese di fare un passo in avanti per garantire un nuovo patto tra politica e cittadini. Più trasparente, efficiente, misurabile, sobrio, senza alibi per i governi. Dove chi vince le elezioni può governare, le opposizioni possono esercitare il loro ruolo nobile di controllo, dove gli organismi di garanzia sono determinati da larghe maggioranze e non si tocca il Presidente della Repubblica, dove non cambia il nostro sistema parlamentare, ma lo si rende più snello ed in grado di agire più tempestivamente.
Ma nel mentre approfondiamo quale sia il modello migliore possibile per l’organizzazione dello Stato e delle sue istituzioni - in rapporto però alle condizioni date e non ai desiderata di ciascuno, se no ci prendiamo in giro -, credo che non dobbiamo smarrire quella che invece è sempre stata una rivendicazione ed un punto fermo dell’azione politica di larga parte della sinistra italiana: la battaglia per la piena attuazione dei valori e dei programmi sanciti nella prima parte della Costituzione. Un cammino per nulla ancora concluso. E che per questo va riaffermato e ripreso con forza, da sinistra. Perché se è vero che la proposta di ammodernamento dell’organizzazione dello Stato è importante, lo sono ancora di più quei valori, quei principi e quei programmi che dalla riforma non sono toccati e da cui, ad esempio, nascono l’allargamento del campo dei diritti (come le Unioni civili per citare l’ultimo caso) o il rafforzamento degli strumenti di welfare a sostegno delle politiche sociali per il superamento delle disuguaglianze sempre più crescenti nel nostro Paese.

***

*Si fa una notevole confusione sugli effetti della riforma, se passerà, sul Presidente della Repubblica. Stiamo ai fatti e a qualche numero, senza prendere in giro nessuno. Per eleggere il PdR ed i componenti del CSM è richiesta almeno la maggioranza dei 3/5, cioè il 60% (438 voti) dei votanti. Per eleggere i giudici costituzionali sempre il 60%, ma dei componenti (così suddivisi: 3 eletti dalla Camera e 2 dal nuovo Senato). Per la revisione costituzionale senza referendum i 2/3 cioè il 66.6% (487 voti) dei componenti.
Per l’elezione del Presidente della Repubblica la riforma prevede, come quella attuale, che per le prime tre votazioni il Presidente debba essere eletto dai 2/3 del Parlamento in seduta comune – dunque 487 voti. Secondo l’attuale testo “dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta”, ovvero la metà più uno. La riforma prevede invece che dal quarto al sesto scrutinio il quorum necessario sia i 3/5 dei voti degli aventi diritto – 438 voti -, dal settimo scrutinio in poi i 3/5 dei votanti effettivi e non dei componenti. Ma è noto che alle sedute per l’elezione del Capo dello Stato tutte le forze sono sempre presenti. E ne deduce che nessuna forza politica potrà da sola eleggersi il Presidente. Ad esempio, anche se abbiamo visto che non sarà così, nel caso in cui restasse come legge elttorale l’Italicum e vincesse Grillo, questo come è congegnato oggi assicura 340 deputati.