mercoledì 9 marzo 2016

L'ospite inquietante, che vuol vedere "l'effetto che fa"




La vicenda dei due ragazzi romani che ammazzano, strafatti, un altro ragazzo per “vedere l’effetto che fa” mi ha lasciato senza parole. Una vicenda che definire agghiacciante è forse troppo poco.

Ho riletto almeno tre volte il racconto trapelato dai verbali dell'interrogatorio.
E tutte le volte duravo fatica a crede a quel che leggevo. Con quel senso di vomito che ti prende quando hai a che fare con cose disumane, ingiuste, violente.
Ho provato rabbia e disperazione, angoscia. Come si fa? Del resto, più o meno, è quasi la mia generazione.

Nel leggere di quel racconto da brividi, di alienazione e di nichilismo e di insana sperimentazione, oltre a provare tristezza e senso di sgomento, mi è venuto in mente un libro letto tempo fa, forse neppure così attentamente, di Umberto Galimberti: “L’ospite inquietante”.

Forse una spiegazione di quel che è successo, ammesso che mai ci sia una spiegazione per una violenza di questa natura, sta proprio nell’ 'ospite inquietante' che è dentro questi ragazzi. E che non pago di essere ospite, sente anche il bisogno di “vedere l’effetto che fa”. Quest’ospite è per l’appunto il nichilismo: cioè la negazione di ogni valore.

Galimberti spiega nel suo libro questa fenomeno con il fatto che viviamo nel mondo della tecnica. E come la tecnica non tenda a uno scopo, non produca senso e non sveli alcuna verità ma, in una parola, 'funzioni' e basta. Proprio a causa di questo nichilismo si annientano i concetti di identità, di libertà, di senso e quelli di natura, di etica, di politica, di religione, di storia di cui, dice Galimberti, si è nutrita l’età pre-tecnologica.

E le nuove generazioni son quelle che scontano più delle altre questa dimensione. Sono i giovani quelli contagiati da una sempre più profonda insicurezza, condannati a una deriva dell’esistere che coincide con il loro assistere allo scorrere della vita in terza persona. Da cui, conclude Galimberti,  derivano anche i riti della crudeltà” o della violenza.

Io non lo so se questa può essere una spiegazione. Certo è un’analisi molto convincente. Come credo che ci sia pure dell’altro: l’ansia dell’apparire (anche questa derivato della tecnica?) ancor prima dell’essere: “Sei perché appari” non , viceversa, “appari perche sei”. Che, se ci pensiamo, è una differenza non da poco.

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