lunedì 13 marzo 2017

IL LINGOTTO E’ DI TUTTI NOI DEL PD

La dico così per chi è del PD (così gli altri passano a cose migliori) e si appresta a questa “stagione breve”, quasi “lampo”, di congresso: al Lingotto di Torino, dal 10 al 12 marzo, avrebbe dovuto esserci tutto il Partito Democratico. Non una mozione, non una parte sola.

Premesso che ogni occasione di discussione politica e di coinvolgimento è la benvenuta e che ognuno si riunisce come e dove vuole, non ho seguito i lavori un po’ perché impegnato in altro un po’ per scelta. Leggerò e ascolterò cosa ha prodotto la reunion renziana, come ho sempre fatto. E sono convinto che troverò anche stavolta idee e valutazioni interessanti.

Tuttavia quello che qui voglio ricordare è che il Lingotto è il luogo simbolo del PD, dove il PD è nato per unire e fondere culture politiche, non per chiudere un cammino ma per aprirne uno nuovo ed unitario, per allargare il campo di una sinistra che vogliamo certamente plurale ma inclusiva e non rinchiusa. 
Fare una Italia nuova. Riunire l’Italia, farla sentire di nuovo grande”, “Unire gli italiani, unire ciò che oggi viene contrapposto: nord e sud, giovani e anziani, operai e lavoratori autonomi”, diceva Veltroni all’inizio del suo discorso del 2007.

Il Lingotto, dunque, come simbolo e luogo fisico dell’unità della sinistra riformista italiana, dell’unità del Partito Democratico che si candida a guidare l’innovazione del sistema politico e del sistema istituzionale.
Per questo penso che lì, 10 anni dopo, avrebbe dovuto esserci tutto il partito. Avremmo dovuto esserci tutti, dal Segretario nazionale al coordinatore del più sperduto circolo d’Italia. 

A ragionare su cosa è stato il PD in questi 10 anni e su cosa non è stato - verrebbe da dire -, su come si sta e siamo stati insieme, su come funziona ed è organizzato sul territorio, su come si finanzia e coinvolge i propri iscritti e simpatizzanti magari usando meglio i circoli ed un po' di più la tecnolgoia, su come si sta insieme tra di noi quando siamo al governo e quando siamo all’apposizione, su cosa ci hanno insegnato e lasciato questi 4 anni di governo di maledette larghe intese e cosa andrebbe corretto e migliorato, con chi vorremmo allearci se andremo verso la sciagurata ipotesi del proporzionale puro, dicendolo prima e non dopo. 

Su quale è la nostra idea di contrasto alla povertà dilagante, alla disuguaglianza crescente, sulle idee per la leva fiscale, su quali politiche industriali per l’economia circolare e quali strategie per la doppia emergenza di questo secolo: la crisi energetico-climatica e l’immigrazione. 

Del perché non intercettiamo il consenso dei giovani e come, nel mentre ed intanto, ci attrezziamo almeno per farli contare un po' di più in Italia, dandogli voce e rappresentanza. 

Di come sia sbagliato, soprattutto a sinistra, non avere l’umiltà di ascoltare. 
Di come sia impossibile governare sempre, e soprattutto in una fase in cui c’è una contestazione fortissima in tutta Europa verso le varie manifestazioni delle élite, attraverso il “ce ne faremo una ragione” ripetuto ai sindacati o attraverso i “ciaone” dopo una consultazione referendaria in cui il popolo, tanto o piccolo che sia, si esprime dopo averlo invitato caldamente a disertare le urne.

Così come avremmo potuto e dovuto ragionare assieme ed affinare meglio politiche e strategie sui temi del mercato del lavoro, sulla scuola, sui diritti civili, sulla sicurezza, sul ruolo delle città, sull’agricoltura. 
Politiche e strategie che, anche per merito di Renzi va detto, hanno avuto il merito di essere affrontate con determinazione da riforme necessarie, ma quanto realmente condivise?

Chiamatela conferenza programmatica o come vi pare se così non fa troppo figo, ma al Lingotto avrebbe dovuto esserci un partito intero a discutere di queste cose: senza conte, senza nomi e senza fretta. 
Provando a definirsi e a definire, finalmente, un profilo politico-programmatico condiviso, alla luce di questi 10 anni e di questa travagliata legislatura.

Ho scritto qui, subito dopo la batosta del referendum, che non possiamo più essere il partito del ‘tutto e del contrario di tutto’. Facendo finta di niente. Anche nei confronti di quelle proposte positive che abbiamo messo in campo e che dobbiamo radicare di più e meglio.

A chi, come me e tanti altri seppure nel loro piccolo contesto locale, ha vissuto in prima persona quella fase dieci anni fa male vedere il Lingotto “usato”, neanche troppo velatamente, a scopo di parte. 

Non c'è solo una parte che può considerarsi e autoproclamarsi la vera “erede” del PD del Lingotto, l’interpretazione autentica di quello spirito. Non ci devono essere tra di noi i più ganzi e i meno ganzi, ci deve essere una comunità politica che sta insieme per unire le forze riformiste del nostro Paese, per cementarle in una proposta di governo che le conduca, finalmente e senza larghe intese, al governo del Paese - se non da sole almeno in coalizioni corte, realmente omogenee - e soprattutto radicate nel campo del centro sinistra.
E che lo faccia nel rispetto reciproco e della maggioranza e minoranza di turno. Quella “forza riformista che, unita, l’Italia non ha mai avuto”. “Il partito – ancora Veltroni - dell'innovazione, del cambiamento realistico e radicale, della sfida ai conservatorismi, di destra e di sinistra, che paralizzano il nostro Paese”. E' il motivo per cui resto convintamente nel PD, nonostante tutto.

Dal discorso del Lingotto emergeva un messaggio di unità che la sinistra, almeno quella che voleva e vuole  ancora fare i conti con il Governo, non aveva mai conosciuto; una prospettiva di unità fortissima di culture diverse – quella socialista, comunista progressista, cattolico democratica, ulivista, ecologista – che si mettevano insieme per lanciare un messaggio unitario al Paese.

Oggi, scegliere quel luogo per una sola parte, come terreno di sfida e di rivincita dopo la prima vera scissione nella storia del PD – per quanto triste nelle idee e povera nei numeri, ma pur sempre dolorosa e da rispettare e da comprendere –, lo trovo un segnale in netto contrasto col messaggio unitario che il Lingotto ha sempre rappresentato.
Oltre che l’ennesima prova che, davvero, non si è capita la delicata fase che stiamo vivendo, soprattutto dal post referendum costituzionale. 
Difficile essere credibili parlando di unità ora, dopo una scissione (che per chiarezza non condivido per nulla, essendo invece molto più preoccupato di quella diaspora silenziosa avvenuta già in precedenza da parte di tanti iscritti, anche a livello locale), e dopo aver governato contro tutti e con il “ciaone”, pur sapendo bene quanto, da sempre, sia difficile il riformismo in questo Paese.

L’unità non è una narrazione. Ma una pratica quotidiana, fatta di ascolto, di reciproco rispetto. Vale per i renziani quanto per gli ormai scissionisti. L’unità è fatta, soprattutto, da toni, parole, gesti, comportamenti, disponibilità e sintesi del segretario politico di turno, che è il primo ad avere e a dover sentire questa responsabilità.
La scelta del Lingotto va, a mio avviso e buon ultima, nella direzione opposta.
A me pare che, ancora una volta, a sinistra l’atteggiamento sia più quello della sfida che quello del dialogo.

Caro Matteo non permetteremo a D’Alema di distruggere e di dividere ulteriormente il PD, ma neppure a te. Perché è tuo quanto mio. Perché è, in una parola, nostro. E non di uno solo. Perché la leadership è importante, ma è il collettivo che smuove e radica il consenso e cambia le cose.

Al Congresso sosterrò la candidatura di Andrea Orlando, dopo che ne ho letto la mozione (quanto gente che si schiera senza aver letto un bel nulla) che mi convince per larghi tratti, a partire da un metodo di conduzione di maggiore ascolto e più inclusivo, assai diverso di quello conosciuto fin qui, e per alcune proposte utili a correggere la nostra rotta, tornando a dialogare con tutti. Ho letto, naturalmente, anche quella di Matteo (che l'altra volta votai, finendo l'idillio dopo appena tre mesi con l'operazione da prima Repubblica fatta al Governo Letta. Anche lì: a chi lo chiedeste se eravamo d'accordo o no?), e ci trovo alcune cose più che condivisibili. Purtroppo il congresso per mozioni è strumento divisivo di per sè:  le mozioni - che che se ne dica - sono fatte per non dialogare tra loro. Non sono tesi che si possono condividere, emendare, affinare per diventare patrimonio di tutti. Le mozioni sono monoliti. Ma ci sono ragioni nelle une quanto nelle altre. Anche per questo sarebbe servito un momento unitario vero sui programmi, sul profilo politico-programmatico del partito. Magari proprio al Lingotto.

Resto convintamente del PD e nel PD che ho fondato, non mi sento un reduce di nulla nè un gazzilloro di prime seconde o terze ore. Coltivo l'ambizione politica che descrisse bene Walter ormai dieci ani fa: fare un'Italia nuova, portare finalmente e per bene la sinistra al governo grazie ad una grande forza riformista che l'Italia non ha mai avuto. Un progetto politico di cui il PD è strumento, e mai fine, di partecipazione popolare, di cambiamento e di innovazione della politica e del sistema istituzionale. Ancora siamo lontani dall'obiettivo, il referendum è lì a dimostrarcelo. E servirebbe una maggiore dose di analisi e di autocritica sul perchè. Anche per questo continuo a stare nel mio partito ma da uomo libero, senza occhi foderati di prosciutto, consapevole delle dfifficoltà enormi che abbiamo di fronte. Soprattutto senza alcuna corrente, ma con spirito autenticamente unitario. Dopo il congresso, tutti al lavoro con il nuovo segretario, facendo la cosa più moderna che ci sia: occuparsi delle persone, delle nostre terre e del nostro Paese.

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